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Mario Manca (@mariomanca89)

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Giornalista. Scrivo di Tv, Musica, Cinema e Libri. Regular contributor per @vanityfairitalia
«Creatore di pensierini».

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📸 @josephcardoofficial ❤️

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Ho iniziato a seguire @iogeppicucciari quando monologava a «Zelig» e ho continuato a farlo ovunque l’ha portata il vento. A «Victor Victoria», dove confezionava dei sondaggi strepitosi che ogni tanto, nelle giornate di pioggia, recupero ancora su YouTube, ma anche a «G’Day», che le ha permesso di farsi le spalle come solista, passando per i film, gli spettacoli teatrali, le ospitate e tutte le cose fighissime che ha fatto negli anni. Ero affascinato da quella parlantina così accurata e da quella battuta sempre pronta, ma anche incuriosito dalla donna che si celava dietro al personaggio. Ho iniziato a scorgerla meglio durante la pandemia, con quelle dirette su Instagram dove interagiva con il pubblico mostrando una tenerezza infinita e, ancora di più, con «Che succede?» e «Splendida cornice», quando è venuta fuori non solo la sua commozione ma anche una sensibilità che pensavo sarebbe stato bello raccontare, anche se Geppi alle interviste è sempre stata allergica. Quando «Rolling Stone» le ha chiesto se ci fosse una domanda a cui non aveva piacere di rispondere lei ha detto «tutte», come a mettere un muro tra quella che mostra e quella che è. Eppure ero convinto che questa professionista riuscita a svecchiare il Premio Strega grazie a una sensibilità per i libri e a un’ironia tagliente e mai volgare doveva solo trovare lo spazio giusto per aprirsi e lasciarsi andare. Sono orgoglioso che quello spazio sia @vanityfairitalia e che sia stata proprio lei la mia seconda copertina. Una copertina dolce, intima, dove Geppi parla per la prima volta di tante cose - la malattia della madre, l’amore che la accompagna, il dolore che ha affrontato e l’ironia che l’ha salvata - con una lucidità che mi ha commosso. Grazie di cuore a Geppi per essersi fidata e per aver brillato in queste pagine grazie alle sue parole e alle meravigliose foto realizzate da @josephcardoofficial. Grazie a @pamela.maffioli, amica dolce e leale, a @chiarapagott, a @silviarivelli_65 per questa cover pazzesca e un grazie speciale a @marchettisimone e @antobussi, che ogni giorno mi fanno onore di quell’ascolto che considero un privilegio. Correte in edicola! #geppicucciari #vanityfairitalia #mariomanca

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Dopo aver mantenuto il segreto fino all’ultimo secondo, terrorizzato all’idea che l’indiscrezione potesse uscire da qualche parte, finalmente rompo il silenzio: questa è la mia prima intervista di copertina su @vanityfairitalia, il giornale che compravo religiosamente quando ero adolescente e sul quale scrivo da 9 anni. Si tratta di una storia intima, privata, che scava all’interno di una relazione e della fine di un matrimonio riuscito a trasformarsi, grazie all’intelligenza delle due persone che hanno dato vita a quel rapporto, in qualcos’altro. Non era scontato che si aprissero in questo modo, così come non ero sicuro che avrebbero risposto a tutto, anche alle domande più invasive, ed è per questo che ringrazio dal più profondo del cuore @soniabrugi e @sonopaolobonolis per essersi fidati di me e di noi. Un po’ come quando si sale sul palco per ritirare un premio importante, mi sento di ringraziare la squadra incredibile che ha permesso che questo progetto arrivasse a destinazione: @sabrinalagana, guida preziosa dal primo all’ultimo giorno; @josephcardoofficial, per l’ironia e l’acume, oltre che per aver scattato delle fotografie incredibili che troverete sul giornale; @auroraeleone, per i sorrisi e le chiacchiere sul divanetto; @forproduction, per la disponibilità e il grande cuore; @chiara_oltolini e @antobussi per i consigli più preziosi che potessi ricevere e, soprattutto, @marchettisimone, che continua a darmi fiducia e facendomi sentire fortunatissimo all’idea di poter lavorare con un professionista come lui. Grazie. Ora tocca a voi: correte in edicola e rendeteci fieri ❤️ #vanityfairitalia #paolobonolis #soniabruganelli #cover #coverstory #mariomanca #vanityfair

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Dici Giorgio Armani e pensi alla pulizia delle linee, alla ricercatezza dei tessuti e a quel tipo di classicismo che non passerà mai di moda perché Giorgio Armani è e sarà sempre questo: un modo di essere e di vestire che non tramonterà mai perché quel codice di abbigliamento e di vita è riuscito a intercettare dei canoni talmente solidi da diventare incontrovertibili. Insieme a quell’allure inconfondibile fatto di classe, di armonia ma anche di gioco, di fantasia e di erotismo - penso a quello spot psichedelico diretto da LaChapelle in cui Ryan Phillippe girava completamente nudo per un mondo distopico prima di infilarsi un paio di jeans di Armani, ma pure quell’altro in cui la signora delle pulizie di un albergo nascondeva la t-shirt di Armani a Ronaldo per continuare a vederlo con i bicipiti e gli addominali in bella vista -, c’è anche l’uomo. Un uomo che ha fatto della discrezione il suo marchio di fabbrica ma che non ha mai nascosto dietro al sorriso istituzionale sfoggiato dietro le quinte delle sue sfilate un dolore strisciante che non lo ha mai abbandonato, un dolore che ha un nome e un cognome - Sergio Galeotti - e un principio scatenante - l’Aids - che Armani custodirà dentro di sé per sempre, senza proclami e senza ostentazione. Lì dove sarebbe stato facile lasciarsi andare Armani, però, ha trovato la forza di andare avanti e di continuare a mettere nel suo lavoro una passione commovente che, anche superati i 90 anni, lo ha portato a non arretrare mai di un passo. Giorgio Armani amava il suo lavoro più di qualsiasi altra cosa, ma è anche rimasto in contatto con un mondo dal quale è sempre stato bravissimo a non isolarsi impegnandosi a proteggerlo - Armani, dopotutto, è stato il primo a sfilare a porte chiuse dopo le prime notizie sul Covid e anche il primo a convertire le sue sartorie da fabbrica-vestiti-da-sogno a fabbrica-camici per i reparti ospedalieri -. Se tutti lo chiamavano «re», insomma, era a ragion veduta, ed è per questo che è impossibile non dirgli grazie per quello che ha fatto per la storia del costume italiano che ha continuato a scrivere fino all’ultimo, in punta di piedi. #giorgioarmani

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Non importa se alla prima sfida abbia vinto Canale 5 o Rai1: importa che la televisione si sia finalmente data una svegliata e sia tornata a essere competitiva. Dopo essersi messa l’anima in pace certissima che Antonio Ricci non si sarebbe mai potuto toccare, Mediaset ha fatto l’unica cosa sensata cui avrebbe potuto pensare: testare l’estate come terreno di sperimentazione per capire in che maniera il pubblico avrebbe reagito di fronte a un quiz. La risposta è stata talmente sorprendente che la Rai ha deciso non solo di anticipare l’inizio di «Affari tuoi» ma anche di annunciare con 10 mesi di anticipo che l’estate prossima controprogrammerà Canale 5 con un nuovo quiz. A giovare di questa competizione è ovviamente il pubblico da casa, che ha finalmente la possibilità di scegliere tra due opzioni. «Affari tuoi» e «La ruota della fortuna» sono diversi - il primo si basa solo sul caso, che in gergo chiameremmo «aleatorio», mentre il secondo permette allo spettatore di partecipare attivamente mettendosi in gioco e provando a dare la soluzione insieme ai concorrenti - ma sono due bei prodotti condotti da due presentatori anch’essi diversi che portano al prodotto sempre il loro contributo. Da una parte Stefano De Martino, sorriso sgargiante ed empatia massima coi concorrenti, e dall’altra Gerry Scotti, professionista navigato che regge da solo il ritmo di un programma che senza di lui risulterebbe probabilmente più moscio e lento. Che bella la televisione quando decide di rimboccarsi le maniche industriandosi per superare la concorrenza, magari fosse sempre così. #affarituoi #laruotadellafortuna

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In Italia gli eventi dello spettacolo più importanti sono due: il Festival di Sanremo, rito collettivo e popolare che all’inizio gli intellettuali si vantavano di non guardare, e la Mostra del Cinema di Venezia, rito esclusivo di addetti ai lavori cui il pubblico può partecipare quasi esclusivamente accalcandosi attorno al red carpet per un selfie con un famosissimo. Io questi due eventi li guardo da lontano perché non li seguo per il giornale per il quale scrivo, e questo mi permette di notare due differenze: Sanremo lo segui come se stessi lì perché tutto quello che avviene a Sanremo è come se succedesse a casa tua mentre Venezia no. A Venezia il pubblico che resta a casa è costretto a stare lì in attesa che i media scelgano cosa dare loro in pasto, e negli ultimi anni quella cosa da dare in pasto è diventata pressoché una: le star, che hanno avuto la meglio sui film. Navigare sulle homepage dei giornali per cercare informazioni su Venezia significa imbattersi quasi subito in informazioni sui vestiti, i legami di parentela e la carriera pregressa dei protagonisti mentre le recensioni, la cosa che personalmente più cerco, restano, quando si è fortunati, in fondo. Il motivo è semplicissimo: il grande pubblico le recensioni dei film non le legge perché dei film, che dovrebbero essere la colonna portante dell’evento, interessa poco o niente a nessuno. Ci stavo riflettendo ieri, quando ho trovato mille articoli sulla bellezza di Jacob Elordi e pochissimi che mi dicessero effettivamente se «Frankenstein» fosse un film imperdibile. Il problema, quindi, è chiaro: in un mondo in cui siamo chiamati a esprimere un’opinione su qualsiasi cosa ci importa pochissimo di quella degli altri, intesi come persone che di lavoro dovrebbero avere un’opinione su quello di cui si occupano. Il glamour è meglio della sostanza: è un’involuzione dei nostri tempi, particolarmente indicatrice di quello che la Mostra è diventata e che, forse, continuerà a essere per chi non la frequenta direttamente. Peccato. #venezia82

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Ho letto l’intervista che Martina Strazzer ha rilasciato alla newsletter «Vale tutto» e l’ho trovata un’efficientissima mossa comunicativa perché, scegliendo di parlare con Selvaggia Lucarelli senza passare dai video sui social o dai quotidiani, Strazzer ha dato prova al pubblico di non avere paura di domande scomode e di interloquire con una penna che, va detto, è sempre stata bravissima a trovare il pelo nell’uovo in molte delle questioni delle quali si è occupata. Premesso che non ho un’idea sul caso Strazzer e, anche se ce l’avessi, è giusto che su questo caso si muova la magistratura per capire le effettive colpe e responsabilità delle parti coinvolte nella vicenda - per chi non lo sapesse, si parla del mancato rinnovo del contratto di lavoro nei confronti di una dipendente neo-mamma accusata di essere inadempiente nella sua mansione di contabile dell’azienda -, ci sono alcune cose che, a livello prettamente giornalistico, mi hanno lasciato qualche dubbio. Noto, per esempio, una lunga premessa che mi sembra prenda per mano il lettore per suggerirgli da che parte stare. Quando si scrive di Sara, ossia della ragazza che ha scelto di denunciare Strazzer attraverso un’intervista per la newsletter «Ma che, davvero?» di Charlotte Matteini, si parla a un certo punto di «questa Sara», e mi sembra che già la scelta di un aggettivo dimostrativo legato a una persona dimostri che quest’ultima non meriti molta credibilità. Al di là di alcune note, anche qui, che mi sembrano scritte per portare il lettore a un certo grado di empatia - l’appunto sul dimagrimento, per esempio, e l’insistenza su concetti come «molto centrata» e «ama la sua azienda», che sono esclusivamente soggettivi -, la cosa che più mi ha lasciato dubbioso è il fatto che non ci sia stato un confronto con chi l’inchiesta l’ha portata alla luce per capire effettivamente che cosa avesse in mano. Magari sbaglio, ma credo che per ricostruire i pezzi di un’inchiesta occorra parlarsi e, magari, cooperare non solo per avere una visione d’insieme, ma anche per dare al lettore tutti gli strumenti possibili per farsi un’idea. È il bello del giornalismo: lavorare insieme per arrivare a una verità. #martinastrazzer

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Incredibile ma vero, anche George Clooney è umano. Ero convinto che andasse anche a dormire con quel sorriso suadente e sornione, diventato negli anni addirittura più iconico della sua criniera brizzolata, e in questa Venezia lo ritrovo mogio, con il viso tirato e senza voce. Nonostante sia arrivato al Lido due giorni prima della presentazione di «Jay Kelly» (che, tra parentesi, non vedo l’ora di vedere) George si è beccato una sinusite che lo ha portato a rinunciare alla conferenza stampa del film ma non al red carpet, perché va bene tutto ma un red carpet di Venezia senza George Clooney sarebbe un po’ come Miley Cyrus senza la palla demolitrice. Arriva sottobraccio alla moglie Amal Alamuddin e non si sottrae a nulla, né ai fotografi né tantomeno al pubblico verso il quale si è sempre mostrato generosissimo anche se è evidente che non sia al massimo della forma e non abbia neanche la metà dell’energia che aveva l’anno prima quando ha portato il suo amico Brad Pitt a gettarsi nella mischia e a fare uno show decisamente più bello e avvincente del film che li vedeva protagonisti, «Wolfs». Il professionismo si vede, però, dai piccoli dettagli, come George che sceglie comunque di avvicinarsi all’inviato di Rai Movie Mattia Carzaniga per scusarsi di non poter essere intervistato perché senza voce. Era qualcosa di assolutamente non dovuto e che molti divi nostrani avrebbero forse tranquillamente bypassato. George Clooney no: lui, cintura nera di divismo anni Novanta, quello dove non sei su nessun social a raccontare i fatti tuoi ma quando vedi il pubblico non te ne vai fino a quando tutti avranno preso un pezzo di te, dimostra che si può essere grandi anche quando la tua faccia ha il colore della pietra pomice. Color pietra pomice che, tra l’altro, sta bene solo - chi lo avrebbe detto - a George Clooney. #georgeclooney

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Nel suo bellissimo monologo alla finale del Premio Strega, Anna Foglietta ha detto una cosa che mi è rimasta impressa, ossia che «non dobbiamo accontentarci della condanna generica alla guerra, ma bisogna costruire ogni giorno gesti concreti di giustizia, dialogo, cura, gesti di verità e responsabilità». Ci ho ripensato nelle ultime ore quando ho letto diverse critiche a #EmanuelaFanelli perché, nel suo discorso a Venezia, ha auspicato un maggiore grado di empatia nei confronti di chi ci è intorno senza, tuttavia, dire «Palestina libera». Mi chiedo se la concretezza cui auspica giustamente Foglietta passi anche attraverso una pratica che sta diventando molto di moda oggi: criticare aspramente sui social tutti coloro che in pubblico non parlano di Gaza dando loro dei complici del genocidio, una frase oggettivamente molto forte. Mi sembra - e spero di sbagliarmi - che tanti utenti siano molto più preoccupati di quello che i personaggi pubblici dicono su Gaza che di Gaza stessa. Mi sembra - e spero anche qui di sbagliarmi - che questo andare contro chi non parla di Gaza sia diventato uno sport che ci porta a pensare di aver fatto la nostra parte semplicemente perché siamo andati a insultare qualcuno per non aver detto qualcosa come pensavamo andasse detta - Emanuela Fanelli, per esempio, ha parlato di Gaza in un’intervista al «Corriere» ma non lo ha fatto in maniera esplicita sul palco pur avendo di fatto utilizzato parole in merito all’umanità deflagrata e sfrangiata del mondo di oggi, riferendosi sia alla Palestina che all’Ucraina. Non penso, in tutta onestà, che la soluzione alla pace sia questa: fare le poste sulla bacheca degli altri per sentirci dalla parte giusta della storia. Quello che sta succedendo sulla Striscia è raccapricciante e terribile, così come è raccapricciante e terribile vedere le immagini dei bambini che muoiono, dei giornalisti trucidati e degli aiuti umanitari bloccati. Mi chiedo però, magari sbagliando, se questo modo di affrontare la causa sui social non sposti l’attenzione dal vero problema. E se i gesti di concretezza, di impegno, di giustizia e di pace di cui ha parlato Foglietta non passino da qualcosa di diverso.

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Io che Emanuela Fanelli, donna di grande preparazione e intelligenza, dica di non voler parlare di Palestina e Israele durante il suo discorso alla cerimonia di apertura della Mostra del Cinema di Venezia la capisco. Non si tratta di sfuggire da una responsabilità ma da qualcosa che in questi contesti formali rappresenta sempre un pericolo che rischia di sbucare da dietro l’angolo quando meno te lo aspetti: la retorica. Buttare lì una frase a caso sulla pace mentre, come ha detto Fanelli stessa, indossa un abito e dei gioielli costosissimi di fronte a una platea annoiata trasformerebbe quella frase in uno slogan che nascerebbe e morirebbe lì, probabilmente banalizzato dalla scarsità di mezzi di cui la maggior parte del pubblico dispone. Continuo a pensare, forse stupidamente visto che dal divano di casa ne siamo diventati campioni incontrastati, che non si possa parlare sempre di tutto se non si hanno gli strumenti e le competenze giuste per farlo. Emanuela Fanelli non è un’intellettuale, una divulgatrice, un membro del governo o una carica politica: è alla Mostra del Cinema di Venezia per fare un discorso ispirato e intelligentemente ironico sul cinema di oggi, le piattaforme e quel divismo che sopravvive ormai solo grazie ai George Clooney e ai Brad Pitt di turno. Certo che se dicesse qualcosa su Gaza strapperebbe un applauso. Certo che se si esponesse contro la politica folle di Netanyahu otterrebbe facilmente i titoli dei quotidiani di giovedì, ma il rischio è quella frase perderebbe di efficacia perché inserita dentro un minestrone pieno zeppo di (troppe) altre cose. E occorre scegliere bene non solo le parole da utilizzare ma anche la cornice entro la quale pronunciarle. Se non altro per rendere giustizia al dolore di migliaia di innocenti che ogni giorno che passa lottano per sopravvivere e che tutto meriterebbero tranne che di diventare fonte di una retorica spicciola salva-applausi. #emanuelafanelli #venezia82

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La prima volta che mi sono sentito milanese è stata nel 2015. Abitavo a Milano da 4 anni e ricordo benissimo che, quel 1º maggio in cui in tv fioccavano le immagini delle devastazioni dei black bloc, piansi come se Milano fosse una cosa mia, come se ci avessi sempre abitato e come se le vetrine infrante del McDonald’s di Piazza 24 Maggio fossero quelle di casa mia. Non avevo mai provato un senso di appartenenza così forte a una città, e fu allora che mi convinsi che Milano non l’avevo solo scelta per studiarci ma anche per mettere radici. Nel 2011, quando tutti mi dicevano che mi sarei presto pentito di non averle preferito Roma perché avrei trovato solo pioggia e umidità, Milano mi accolse con giornate splendide, un cielo talmente azzurro da sempre dipinto e quel freddo pungente che continua a farmi sentire vivo perché sono certo che i miei polmoni si ossigenino meglio quando fuori c’è il freddo e c’è il vento. Ho scelto Milano 14 anni fa e, anche se noto con un certo dolore quello che sta diventando e quello che si è lasciata dietro, continuo a volerne bene perché è la città in cui ha sede il giornale per cui scrivo e la casa che ho scelto di comprare sfidando uno dei mercati immobiliari più folli d’Europa. In questi mesi in cui si parla di inchieste urbanistiche e sgomberi e in cui Milano appare spoglia come ogni fine di agosto, con le saracinesche di molti ristoranti e negozi abbassate e i parcheggi insolitamente liberi, rifletto su questa città così ricca di contraddizioni, così concentrata su come appare e un po’ meno su come è, e su quanto io continui ad amarla nonostante tutto insieme a tutti quelli che, come me, l’hanno scelta anni fa. So che Milano darà ancora prova di essere all’altezza degli abitanti che la vivono e so che Milano non morirà fino a quando ci saranno persone come me che, anche se la detestano a giorni alterni perché l’Atm aumenta i prezzi e peggiora il servizio e il costo di qualsiasi cosa rasenta sempre più il ridicolo, non le volteranno le spalle ricordandosi quello che Milano ha dato e tolto loro. Proprio come quelle cotte che ripensi con nostalgia anche se non hanno mai saputo di aver contato qualcosa per te. #milano

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Ogni volta che un personaggio noto viene a mancare sia i giornali che il pubblico si affrettano a trovarne immediatamente un erede, come se la certezza dell’immortalità della sua opera potesse in qualche modo mitigare l’amarezza della perdita. Succede da sempre e, puntualmente, l’aspettativa non riesce quasi mai a tradursi nella realtà per un semplicissimo motivo: personaggi come Pippo Baudo sono eterni, e se anche ci fosse qualcuno in grado di avvicinarsi alla loro cifra non potrà mai sostituirsi a loro. Nonostante questo, la caccia all’erede di chi ci lascia o di chi si ritira sta diventando uno sport alquanto sgradevole, soprattutto per il tempismo con il quale viene comunicato. Poche ore dopo la morte di Baudo, per esempio, l’avvocato e amico Giorgio Assumma ha rivelato che Pippo pensava che il suo unico erede fosse Stefano De Martino, perché «ha capito il modo di parlare al popolino». Tralasciando la nota vezzeggiativa sul popolino - tutto si poteva dire tranne che Baudo non nutrisse rispetto e stima nei confronti del pubblico che lo seguiva -, l’impressione è che questo paragone sia stato inopportuno non solo per la memoria di Baudo ma anche per lo stesso De Martino, costretto a un confronto impari che, avesse potuto scegliere, probabilmente non avrebbe mai acconsentito a mettere sul tavolo. Il problema degli eredi da trovare a tutti i costi non riguarda, però, soltanto i morti ma anche i vivi: quante volte è capitato che i giornalisti chiedessero a un’artista come Raffaella Carrà il nome di chi avrebbe potuto continuare il suo operato? E quante volte l’artista in questione si è sentito imbarazzato se non a disagio al pensiero di eleggere un proprio adepto a tutti i costi? In questo Amadeus, all’uscita dalla camera ardente di Pippo, ha colto nel segno: i grandi professionisti come Baudo e Carrà sono e rimarranno unici,e per quanto un talento possa ispirarsi al loro modo di fare l’eredità è un concetto ben più complesso di un semplice slogan, e sarebbe il caso di ricordarlo. #pippobaudo